Risonanza su Twitter
Nina Ansary
I dipinti di Giuseppe Siniscalchi hanno avuto da sempre grande risonanza sui più moderni e aperti sistemi di comunicazione. Sui social network, Twitter ha aperto al Fronteversismo le porte del consenso internazionale. Un gran numero di dipinti fronte/verso sono stati scelti fra i preferiti Twitter di giornalisti professionisti, da istituzioni (come il Louvre e il padiglione Expo del Regno Unito e della Colombia) nonché da vip di testate (cartacee e televisive) internazionali di prim’ordine.
Ad mero titolo di esempio citiamo Azadeh Ansari (CNN International News Editor & Writer. Twitter profile: @Azadeh), Azadeh Williams (International journalist, IDG, The Times UK, Reuters. Lecturer at Macleay College. Twitter profile: @azkmediatweet), Yasamin Beitollahi (Digital Media Professional, Huffington Post Contributor, Passionate about Gender Equality. Twitter profile: @ybeitollahi), Christina Park e Antwan Lewis (Fox 5 TV New York).
Grande estimatrice di Giuseppe è anche la storica e scrittrice iraniana Nina Ansary (Twitter profile: @drninaansary), paladina dei diritti delle donne iraniane e non solo. Fra i VIP che non richiedono presentazione e che seguono il Fronteversismo ci sono Carol Alt, Ornella Muti, Julian e Nino Cerruti, Paula Tooths (@paulatooths scrittrice e giornalista, avvocato , docente di yoga , sport e corretta alimentazione), Chrissy Horansky, Monica Triglia e Myriam Defilippi.
Anna Serova (violista)
«Ho conosciuto Giuseppe Siniscalchi tramite amici comuni che me lo hanno presentato come avvocato. Con il tempo ho avuto modo di scoprire la sua eccezionale sensibilità artistica che si accompagna a un animo generoso e pieno di luce».
«Con i tempi che corrono, quando tra le persone e tra i popoli manca la cosa fondamentale che è il dialogo, l’arte per me è la via d’uscita. A tutti noi l’arte dà la possibilità di sentirci uniti nel provare la stessa emozione: ascoltando un brano musicale di Bach, guardando un balletto o ammirando un dipinto. Non ci serve parlare la stessa lingua per apprezzare la bellezza. Il mio augurio è che si realizzi quanto auspicava Dostoevskij: “La bellezza salverà il mondo”».
«La forza del Fronteversismo sta nella sua idea di base: pace, bellezza, unione tra le varie arti. Artisti, scienziati e filosofi provenienti da differenti aree geografiche, con storie differenti e appartenenti a religione diverse, possono scambiarsi delle idee e, attraverso questo fertile dialogo, arricchire il mondo, renderlo migliore».
«L’Universalità del Fronteversismo permette a questo movimento artistico e culturale di travalicare confini e barriere: quando una cosa (che sia un dipinto o un’idea) è bella, è bella sempre e lo è per tutti. Soprattutto, si rivela utile per l’umanità come messaggio di pace. Io personalmente credo nell’uomo e nella sua saggezza e penso che ogni artista abbia una missione: ricordare all’umanità di attingere, il più possibile, alla propria saggezza».
Maestro Shinji Kobayashiex insegnante d'arte ed ex presidente
di musei giapponesi come il Joetsu
Il mondo pittorico di Giuseppe Siniscalchi
Il pittore italiano Giuseppe Siniscalchi, di professione avvocato, si sta prodigando in una serie di dipinti attraverso cui intende fondere la tradizione artistica giapponese e quella occidentale. Con questo scritto intendo esprimere alcune mie valutazioni su questo tentativo pittorico di Giuseppe. Chiedo scusa se prima di affrontare l’argomento vi rubo un po’ di tempo per raccontarvi un episodio. Ero in terza superiore (1950), quando nell’ora di storia occidentale il professore ci fece un discorso che mi impressionò profondamente. Si dice che quando Francesco Petrarca, noto poeta e filosofo italiano del 1300, dopo aver scalato una montagna e raggiunta la cima, abbia esclamato così: “La montagna l’ho sotto ai miei piedi”. Il professore aggiunse che questo fatto storico è come il simbolo dell’alta superiorità dell’essere umano sulla natura, raffigurata dalla montagna. A quell’età io trovai questo discorso meraviglioso. Pensavo, infatti, che se attraverso il Rinascimento il genere umano aveva potuto ottenere abbondanti benefici materiali, ciò fu proprio grazie all’applicazione del principio della civiltà occidentale che ritiene la natura essere uno strumento nelle mani dell’uomo per il raggiungimento dei suoi profitti. Era l’anno 1950, quando in Giappone ferveva lo sforzo per ritrovare la prosperità perduta durante gli anni della guerra del Pacifico. Era l’epoca in cui l’appello che un po’ ovunque circolava come un ritornello era quello di copiare in tutto il sistema dell’Europa, raggiungerlo e sorpassarlo. La conseguenza fu che in quegli anni i valori tradizionali giapponesi subirono una profonda svolta. Fu nell’anno 1956, proprio quando la suddetta sete di ricostruzione era giunta all’apice, che lo scalatore giapponese Maki Aritsune raggiunse la vetta Manaslu della catena himalayana. La notizia, diffusa in tutto il mondo, ai giapponesi offrì una luminosa occasione di riscatto dal clima di sfiducia che prevaleva. Quando lessi il diario della scalata che Maki pubblicò con il titolo “La scalata del Manaslau”, spontaneamente rievocai le parole del Petrarca che avevo udito in terza Liceo. L’approccio dei due verso la montagna è del tutto opposto. Maki Aritsune non usa mai espressioni come conquista della montagna. Scrive invece che ha raggiunto la vetta abbracciato dalla montagna ed esprime il suo rapporto con la montagna come una convivenza, e mai usando espressioni di contrapposizione verso la natura. E’ il 和 (WA), il sentire profondo che scorre sul fondo della cultura giapponese. La lettura del testo di Aritsune mi commosse profondamente e da allora provo altrettanto profondo dissenso verso le parole di Petrarca. Fu un’esperienza della mia identità giapponese. Detto ciò, giunti qui, dobbiamo riconoscere che l’andamento del mondo, Giappone compreso, è stato proclive al pensiero europeo simboleggiato da Petrarca. Il risultato è il raggiunto beneficio dell’odierna ricchezza materiale. Ma anche un altro risultato: infatti noi stiamo sempre più smarrendo il nostro legame con la natura e il legame fra di noi. Non possiamo chiudere gli occhi davanti all’evidenza che ci troviamo in una carestia spirituale, assaliti da un vago senso di instabilità e di solitudine. Ci sarà mai una via liberatoria da questa situazione di crisi? In un recente incontro Giuseppe Siniscalchi mi ha mostrato i suoi dipinti e mi ha parlato della sua visione artistica. Benché non intenzionale mi fu spontaneo evocare il discorso appena fatto su Petrarca e Maki Aritsune. Ho riscontrato molto interessante il fatto che Giuseppe, un concittadino del Petrarca, alcuni secoli dopo ricerchi la fusione dell’arte giapponese e di quella occidentale. Fu con gioia che ho constatato che finalmente la fusione dell’arte giapponese così ben rappresentata da Miki Aritsune e quella occidentale stava avvenendo attraverso il signor Giuseppe. Pensai pure ho questo potrebbe costituire un’opportunità salvifica dalla crisi spirituale in cui l’uomo d’oggi versa. Potrebbe gettare un raggio di luce sul futuro dell’umanità. Fu per spiegare come è maturato questo mio pensare che ho ritenuto necessario premettere il discorso appena fatto. Nel 2011 presso il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano avvenne il primo incontro di Giuseppe con lo scultore giapponese Azuma Kenjirō. Fu quell’incontro a risvegliare in Giuseppe un profondo interesse verso la cultura giapponese. Così Giuseppe decise di buttarsi nell’arte della pittura, verso cui si era sentito inclinato fin da fanciullo. A ingaggiare in lui questa appassionata ricerca di una sua forma espressiva sta la forte attrazione che avvertiva verso le forme giapponesi animate dal 和 (WA). A monte di questa attrazione verso la cultura giapponese, probabilmente è da riconoscere la presenza della sua stupenda sposa, nativa di Jōetsu. Il fatto che Giuseppe, un tipico figlio della cultura occidentale, dimostri un profondo interesse verso la sensibilità giapponese del 和 (WA) e abbia fatto di questa sensibilità l’energia motivante la sua ricerca pittorica, tutto ciò – nemmeno da dire – mi rende molto felice. La comprensione della cultura giapponese rimase sempre ostica per gli occidentali, tuttavia il fatto che grazie a iniziative come questa ora salga sulla ribalta internazionale contiene un grande significato non solo per il Giappone, ma per la storia futura dell’umanità. Così penso. I quadri che Giuseppe dipinge a tempra si presentano al mondo come un qualcosa di unico. I personaggi dei suoi quadri oltrepassano le differenze di questa o quella nazione o etnia. Sembrano cittadini di un ambiente cosmico. In tutti i suoi quadri si percepisce in grande la dimensione dell’affabile rapporto tra l’essere umano e la natura. Non solo, vi si percepisce anche come una sinfonia tra la magnificenza eterna del cosmo e la precarietà della vita umana. Nei quadri di Giuseppe è impresso il forte messaggio che tutto quanto esiste è 環 (WA), unito in un tondo legame, senza alcuna discrepanza. Evidentemente ciò significa anche domanda di pace per il mondo intero. I due ideogrammi 和 (WA) e 環 (WA) – differenti ma dalla stessa lettura (inserzione del traduttore) – nella lingua giapponese evocano un significato collegato. Tutto mi fa pensare che Giuseppe ne sia a conoscenza. I quadri di Giuseppe hanno una struttura semplicissima. Proprio perché non si perde in accorgimenti tecnici, la scena dipinta risulta essenziale ma ricca di richiami sottintesi, sembra un momento contemplativo. Fra i dipinti che Giuseppe mi ha mostrato ne scelgo uno, su cui voglio esprimere alcune impressioni. Di questo dipinto ignoro il nome, ma non importa. Al centro del quadro sta, piegata verso il basso, una graziosa donna dalle fattezze orientali, coperta fino agli occhi da un cappello. In alto è dipinta la luna che riversa una luce pallida sulla donna e sull’ambiente circostante. Interpreto che Giuseppe, proprio perché italiano, a bella posta abbia dipinto la donna con fattezze orientali a significare che ha dipinto da un livello oltre ogni appartenenza, sia la sua occidentale, ma anche quella orientale. I piedi e le mani del personaggio dipinto sono affossati nella terra, come se stesse nascendo dal ventre della terra. La donna dipinta è un tutt’uno con la terra, e insieme è figlia della terra. Contemporaneamente è un tutt’uno con il cosmo, oltre i confini del tempo e dello spazio. E’ questo il richiamo che proviene dall’ideogramma 和 dipinto sopra il cappello. Vedendo questo dipinto di Giuseppe mi fu spontaneo evocare l’ideogramma 能 (NŌ) della tradizione teatrale giapponese. Il motivo è questo: negli avvenimenti messi in scena nel teatro 能 (NŌ) non c’è separazione tra passato, presente e futuro. Vi è rappresentato il mondo oltre il tempo e lo spazio. La scenografia è semplice, senza alcuna aggiunta. Il volto degli attori è coperto dalla maschera. L’effetto sonoro è surreale. Sotto il nome di Takigi Nō – Nō della legna da ardere (nota del traduttore) – il Nō viene esibito anche all’aperto. In un certo senso il 能 (NŌ) è il luogo dell’incontro solenne della natura e del cosmo. Tutti gli esseri esistenti si correlano nel tempo e nello spazio, nel tondo legame del 環 (WA). E’ in questo senso che riconosco che nell’essenza del mondo pittorico di Giuseppe c’è qualcosa che comunica con il mondo del 能 (NŌ). Viene spontaneo chinare il capo davanti all’assiduo sforzo che questo uomo conduce per la fusione armonica dell’arte giapponese e dell’arte occidentale. La sua attività è animata dal 和 (WA), pacificazione universale. E’ inoltre preghiera per il raggiungimento della pace del mondo. Formulo l’augurio che questa sua attività continui nel futuro, per la liberazione dalla carestia spirituale che l’umanità oggi sta attraversando. Può sembrare che questo testo, il preambolo compreso, sia finito per diventare un discorso alquanto arbitrario. Ne chiedo venia.
Padre Luciano Mazzocchi
(cappellano della comunità cattolica giapponese di Milano)
Wa-Pace
Certe parole dicono il senso che contengono già dalle vibrazioni della loro pronuncia, ancor prima che il lettore ne consulti il significato sul vocabolario. Sono le parole che hanno conservato la purezza della loro origine, perché sono le più preziose e care al cuore umano. Una di queste è pace. I latini dicevano pax. Chi pronuncia pace si sofferma sulla a, quasi riposando in pace. L’opposto è guerra e già la pronuncia corrugata dalla u e dalle due r suscita l’impressione di qualcosa irritante. Oltre alle parole, anche i segni e le immagini hanno la capacità di esprimere il senso che indicano, senza emettere alcun suono. Familiari ai popoli del Mediterraneo sono i simboli della pace nel ramo d’ulivo e nella colomba. La colomba è un uccello mansueto che ama lasciarsi rincorrere dai bambini, per cui lo Spirito Santo si affida alla sua immagine quando vuole manifestarsi agli uomini. Il ramo d’ulivo parla di pace con il colore delle sue foglie verdi e argentee. Inoltre produce le drupe per l’olio, l’elemento che dona morbidezza alla pelle essiccata e vigore alle membra stanche. Ad ogni italiano, l’ulivo richiama le ondulate terre del Sud, dove la natura è madre di pace con i suoi panorami che profuma con le sue tante erbe aromatiche. L’ideogramma, nato in Cina e in seguito migrato in Giappone, che dice pace è 和 – wa. L’ideogramma è una immagine, non è un’idea. Come immagine è madre di tante applicazioni, di tante sfumature. L’immagine può essere vista come nome sostantivo, oppure come verbo, oppure come aggettivo. Anche la lingua italiana, oltre il significato originario di la pace come soggetto, combinando con il verbo fare coniuga la parola pace nel verbo pacificare e nell’aggettivo pacifico. La lingua giapponese, senza alcuna combinazione e aggiunta, nell’ideogramma 和 – wa indica la pace come nome, come verbo, come aggettivo. E non solo. Il mio vecchio dizionario degli ideogrammi, il Sumigawa Kanwachūjiten, anzitutto mi descrive da quali spunti gli antichi cinesi hanno composto l’ideogramma 和 . La radicale a sinistra, 禾 ,è l’immagine stilizzata della spiga di riso che, maturando, china la testa. Quella a destra, 口, significa la bocca. La combinazione delle due radicali evoca, quindi, la bocca che chiede il cibo e lo ottiene. La pace è, anzitutto, con – dono della natura, del lavoro e della solidarietà sociale. E’ dono della provvidenza che guida l’universo. Possiamo richiamare un versetto del salmo 8:
“O Signore, nostro Dio, com’è grande il tuo nome su tutta la terra: sopra i cieli si innalza la tua magnificenza. Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli”.
La potenza dell’infante che succhia il latte, afferma il salmista, riduce al silenzio nemici e ribelli. Significativa vicinanza fra la tradizione biblica e quella confuciana: il simbolo della pace non è reso dalle armi, ma dalla bocca e dalla spiga, dalla bocca dell’infante e dalla mammella della madre. Il mio vecchio vocabolario degli ideogrammi dice così la sua interpretazione di 和 : Questo ideogramma dice la sensazione di pace che due persone provano quando accostano il loro cuore. Poi elenca i tanti modi in cui il giapponese può intendere l’ideogramma, a seconda della sua collocazione nel testo. Yawaragu, e significa ammorbidire. Yawaraka, e significa morbido. Tairaka, e significa piano. Tairagu, e significa rendere piano. Odayaka, e significa pacifico, calmo. Atataka, e significa caldo. Nagi, e significa bonaccia. Inoltre lo stesso ideogramma usato nei nomi a volte è letto wa, ma altre volte kazu, e così abbiamo i nomi molto comuni di Kazuko, Figlia della pace, e il corrispettivo maschile Kazuo oppure Kazuto, Figlio della pace. L’ideogramma 和 si combina con altri e forma alcune parole fra le più sacre dell’esistenza umana. 調和, chōwa, che dice armonia. 穏和, onwa, che dice calda pacatezza – benevolenza, come quella di papa Francesco. Soprattutto sottolineo 平和, heiwa, che nella lingua giapponese è il nome ufficiale della pace. I trattati di pace stilati dai grandi della terra spesso riflettono gli equilibri di potere, per cui pace significa predominio dei forti e soggiogamento dei deboli. La pace ottenuta con la guerra non è accostamento di cuori, ma seme di future rivolte di popoli vinti contro i loro vincitori. La pace, 平和 – heiwa, è reale solo quando è contemporaneamente 調和, chōwa, ossia armonia. e 穏和, onwa, ossia calda pacatezza – benevolenza. Tutti i popoli, in oriente come in occidente, nella loro storia hanno profanato la pace imponendola con le armi e attraverso il versamento del sangue. Le culture e le religioni troppo spesso hanno mistificato le contrapposizioni fra i gruppi umani con le loro scomuniche reciproche, fomentando gli scontri violenti fra i popoli. La pace, 平和, heiwa, è autentica quando è 調和, chōwa, ossia armonia. Quando è 穏和, onwa, ossia calda pacatezza – benevolenza. Ogni qualvolta la Natura e l’Uomo si incontrano fino alla fusione delle loro essenze, lì si origina la pace che è armonia e benevolenza. La Natura produce le spighe di riso, di frumento e tutti gli altri viveri che nutrono la vita. L’uomo vi riversa il palpito del cuore e la luce del pensiero. Così, la Natura e l’Uomo, insieme concepiscono l’arte. Quando il pittore delinea sulla tavola il sole che nasce o che tramonta, contemporaneamente più autori cooperano alla stessa opera d’arte. L’uomo con il suo cuore e la sua mente vede e personalizza la scena da dipingere, la natura con il sole che sorge o tramonta detta all’uomo l’immagine da delineare, il colore e i il pennello rendo possibile l’incontro tra il pittore e la scena naturale. L’autore di ogni opera d’arte, da quella pittorica a quella musicale, è sempre il concerto tra cuore umano ed elementi naturali. Mi piace concludere questa breve riflessione con l’immagine delle mani congiunte in venerazione e preghiera. La parola giapponese che dice le mani giunte è 合 掌 , gasshō. Ultimamente ho ricevuto la visita del bonzo Tatsusawa Nichikō, della scuola Nichiren, venuto dal Giappone a incontrare il figlio Kyōichi, studente di canto lirico a Milano e assiduo frequentatore della nostra messa domenicale in lingua giapponese. Con l’insigne ospite feci visita al cardinal Tettamanzi che, dopo il ritiro dalla attività pastorale, risiede nel centro di spiritualità Sacro Cuore a Triuggio. Il bonzo presentò al cardinale un dipinto a lui molto caro, che raffigura le mani giunte dell’uomo che si sovrappongono alla sagoma del Fijiyama. La forma conica perfetta del monte si combina armonicamente con le mani dell’uomo in preghiera. Il bonzo aggiunse pressapoco queste parole: Il Fujiyama è le mani giunte della madre terra. Noi esseri umani impariamo dal Fujiyama e insieme congiungiamo le mani. Madre Terra e i suoi figli, ossia noi uomini, preghiamo assieme. Il cardinal Tettamanzi, compiaciuto, aggiunse una sfumatura caratteristicamente evangelica e disse pressapoco queste parole: Una delle due mani è quella che dà, l’altra è quella che riceve. Insieme sono le mani dell’amore. Nei dipinti dell’amico Giuseppe Siniscalchi vedo l’armonia del dare e del ricevere. Secondo le occasioni, le mani del dare e del ricevere si invertono, e quella che ha dato ora riceve, e quella che ha ricevuto ora dà. Nel dare, ringraziando di poter dare, e nel ricevere, ringraziando di poter ricevere, lì vedo la pace, la spiga e la bocca, il bimbo che succhia e la mammella della madre. Lo stomaco del bimbo si riempie e la mammella si svuota. Un giorno il bimbo accudirà alla madre anziana. 和.
Professor Marco Marinacci
(storico dell’arte) Segni di Pace
Dal primo fortuito incontro e confronto con la poetica di Giuseppe Siniscalchi, grazie alla presentazione di un comune amico – ricordo ancora che eravamo in visita a una mostra curata dal Politecnico al Museo della Scienza, inconsci di tutto quel che sarebbe seguito, e sarebbe stato molto, e iniziò nell’istante preciso in cui potei ammirare qualche fugace foto delle sue opere sul telefonino; inutile dire che l’istante dopo eravamo già convinti di essere animati entrambi dalla stessa forte passione verso l’arte il patrimonio culturale del nostro Paese, e complici nell’impegno di volerlo salvare e valorizzare – capii immediatamente che gli strumenti a cui dovevo guardare, non erano quelli di cui si avvale normalmente l’analisi critica contemporanea, per definire i confini estetici di un’esperienza artistica, in questo caso troppo deboli, bensì quelli solidi e temprati della storia dell’arte, unici in grado di afferrare il messaggio di una poetica così intrisa di storia personale e umana insieme. Infatti quella che si presenta è una storia non semplice da raccontare, perché se da una parte presenta una complessa simbologia di carattere archetipico, dalla quale si genera quella lingua dell’intuito creativo che affonda le radici nella prima infanzia, portando la poetica ben più in là dei meri limiti estetici, a essere vera esperienza totale di vita, dall’altra affina i segni di una semantica che indica una precisa potente volontà dell’opera d’arte: quel momento epifanico, quel gesto squarciante il velo di Maya, e più ancora, quella possibilità di inaugurare un nuovo mondo che, secondo l’indimenticato Hans-Georg Gadamer, apparteneva solo all’arte. In questa portata inaugurale consiste il messaggio più profondo dell’opera di Siniscalchi, che la storia dell’arte insegna attraversare il segno dei grandi visionari, Van Gogh in testa, dal quale assume il testimone cromatico, e poi molti altri, fino a Basquiat, di cui prosegue la traccia, innestata nel grande solco iniziato oltre 18000 anni fa, nelle profondità labirintiche delle grotte di Altamira, e così giunto fino a noi. Qui e ora, per portare avanti il messaggio salvifico di cui si è fatta da sempre garante l’arte dei grandi visionari. La matrice della pittura di Siniscalchi è infatti di una qualità sorgiva che pesca nel profondo di ciascuno di noi, quell’infinito interiore che ha da sempre come paradigmi primi il segno e il colore. Di qui facile intuire quale sia il linguaggio: un segno primario di canone infantile, che parla di memorie lontane, tanto che – se il colore è simbolo – non sembra azzardato definire ancestrali. Se poi, come insegna Jacques Lacan, nel linguaggio si stabilisce il rapporto con l’Altro, nel segno del “desiderio”, e come ci indica Roland Barthes, in quel segno si può leggere il senso, la tensione ultima di tutto il messaggio che l’opera d’arte intende presentare, ecco che la poetica di Siniscalchi concepisce un segno che porta inequivocabilmente verso l’Altro. Un “altro” inteso sì come “linguaggio” formulato dal “desiderio”, ma il desiderio è qui quella Kunstwollen, quella “intenzionalità artistica”, come l’ha chiamata Alois Riegl, che ha la capacità di render presente una vera e propria Weltansschauung, una “visione del mondo” precisa e assoluta. Ecco dischiudersi un mondo antico, arcano, fatto di una simbologia elementare quanto immediata, in cui torna quell’alfabeto pittorico col quale ogni gesto creativo già dall’infanzia produce il proprio universo linguistico. E personalissimo è l’universo simbolico di Siniscalchi, la cui grandezza è fermarsi esattamente là, un attimo prima che la lingua diventi quella degli adulti, quella Babele che sfugge al dominio dell’essenziale e dell’immediato, incomprensibile alle diverse culture, alle diverse società, alle diverse identità. Un linguaggio comune, un nuovo esperanto, sembra invece potersi riconoscere in questa originaria espressione pittorica che, con tutta la sua carica vitale e simbolica primaria, parla a chiunque, e gioca con tutti, con semplici gesti e segni, come un bambino sulla spiaggia che costruisce il suo castello di sabbia. E se Kafka ci ha insegnato che il castello può essere anche un grande, meraviglioso gioco per adulti, Siniscalchi ci esorta a non farlo diventare una torre, dove facile è perdere il dominio dei sensi, ma a riguadagnarne, in un alfabeto primario di valori tattili, il significato profondo. Ecco apparire, dal linguaggio volutamente infantile, in una continua ricerca dell’io basilare, alla volontà salvifica, all’idea di un simbolismo tanto antico quanto arcano, i primari del linguaggio segnico di Siniscalchi. In questa poetica germinano così i semi di una nuova dimensione narrativa ed espressiva insieme, prima interiorizzata dall’autore e poi riportata in quell’omino che, topòs costante di un immaginario iconografico, diventa sulla tela il primo osservatore della realtà “al di là” di essa. Una realtà spontaneamente rielaborata, e tutta ricomposta in un universo-mondo di natura pittorica. Ed ecco apparire quel mondo, nelle tante opere, e in ciascuna di esse, che dall’infanzia raccontano l’universo poetico del loro autore. A cominciare da “Riposo – meditazione dopo fatica”, in cui si ritrova, nello smalto scrostato come di automobiline dimenticate al sole, la memoria di un’epoca passata, lontana, un tempo dei giochi, riconquistato ora, nel momento del riposo, e della memoria, in fattezze di un’umanità riportata a meditare su se stessa. Ecco che riaffiora, insieme al Pensatore di Rodin, il ritratto di Van Gogh: uno dei tanti fatti da Francis Bacon, che è quello dell’innocenza dell’umanità tutta. Ma poi i “Giochi di bambini” si fanno sempre più difficili, meno innocenti, come evidenzia l’arrotolamento del segno del pastello grasso, che litiga con la tela, gomitolo afferrato da un gatto invisibile che continua a giocare da un mondo “oltre lo specchio”, come quello di Alice. Qui lungo è il novero di artisti più o meno conosciuti, come Norberto Proietti o Riccio, pittore milanesissimo ma oscuro alla città, che nel tempo sono tornati bambini, ovvero massimi creatori, come insegnava Munari, grazie a quel segno vitale e giocoso. In “13” quel filo sembra poi trovare un telaio, un arcano arcolaio che lo riporta ad essere “segno tessuto”. Difficile non pensare a Basquiat, e agli elementi primitivi della grafica rupestre. Sempre di matrice milanese, ma più complesso, il segno nello “Scalatore”, tanto che su di esso si fermerà a riflettere per oltre mezzo secolo, dalla prima mostra del ’62 che ne consacrerà la ricerca, il gruppo de Cenobio, in testa a tutti Ugo la Pietra e Angelo Verga. Poi la matrice incisoria dei “Quattro fiori” evidenzia ancora la volontà di ricerca di un segno, ma più grafico, bruegheliano nel senso dell’arte incisoria olandese, come quello che Van Gogh intravvedeva nelle opere di Rembrandt. Un segno che scava, che lascia traccia, e, come il solco nella terra, intende accogliere il seme salvifico che l’arte sembra a volte capace di germinare. Quando si entra, come varcando le porte di Babilonia, nella “città di Fantasia” – il nome è proprio, e si aggiunge a una delle tante città invisibili di Calvino – si dispiega una metropoli di Lego che consegna la propria misura geometrica all’enorme gioco di un architetto-bambino, forse il piccolo Van Doesburg, certo l’esatto opposto di quell’architetto-demiurgo tanto amato dagli architetti utopisti del Settecento, e sospirato dai massoni del secolo successivo. Ecco allora, ad ammonire del peccato di ùbris verso cui si rischiava di andare incontro, con l’aspirazione a creatori del mondo e delle sue regole, le “Architetture precarie”, che riportano a un segno di canone piranesiano, ampio nel costruire forme quanto crudele e sprezzante nel denunciarne il vacillante e assurdo equilibrio. Tanto da raggrumarsi, in “Astratto”, intorno a un puro sintetismo di forme, come nell’ultimo Mondrian, in cui al ritmo di un “Broadway Boogie-woogie” viene sostituito qui un intento progettuale, in toni di blu (non a caso codice estetico della lingua del progetto in ambito anglosassone). Ma come nel sonno innocente dell’infanzia, a un fugace incubo notturno, o a un sogno divinatorio, segue la quiete del risveglio, accompagnato dalla sonora, pausata “Alba sul lago”, in cui gli alberi ricompongono una veduta di stampo giottesco, passata attraverso lo sguardo abbagliato del Doganiere e quello appuntito e astraente di Carlo Carrà. Sotto, china, la figura di quell’omino, visto per la prima volta quella notte di luglio del 1888, in un desolato caffè di notte, sperduto in una Parigi in cui unico a vagare sembrava essere Vincent. E Van Gogh torna poi in quell’omino sperduto nell’”Alba sulla montagna”, ma qui accompagnato, nella sua transumanza artistica, dall’amico Emile Bernard, dal cui pennello simbolista sembrano essere state quelle vacche al pascolo, sottratte a una vecchia tela (Bretoni sul prato) e riportate, come tessere di un mosaico (quella d’altronde la chiave del cloisonnisme), su questa, omaggio alla prensile fantasia di un altro grande “visionario”, a distanza di un secolo. Nell’assordante visionarietà profetica dell’arte di Siniscalchi, proseguendo nell’indagine visiva delle opere, molti sono i nomi che riverberano, dalle notturne, oniriche visioni di William Blake, alle essudanti pulsioni gestuali di Pollock, dalle smaltate eleganti sinfonie del colore, reduce degli incanti estenuati di Schifano, allo scoppio di un primordiale “Big Bang”, che non può non ricordare quello on cui Kandinsky sovverte le leggi del primo periodo “impressionista”, del quale ancora sembra serbare memoria la distesa pagina di “quiete sotto la luna”, per gettarsi nel vortice vorace dell’espressionismo. Un espressionismo che arriverà a una “felicità” tutta sua, molto diversa da quella Joie de vivre di esito matissiano, perché fissata a un preciso simbolo di redenzione, rinnovato crocefisso, che Bacon e poi molti altri – pensiamo solo al contemporaneo Hermann Nitsch – decideranno di fare proprio. Una precisa iconografia, che ritorna continuamente, così come torna il tema della malinconia, precisato dalla ricerca di Munch, nella figura dell’omino con cappello, nel simbolo della croce e della pace Wa, della luna al tramonto, nei rossi, nei gialli e nei blu smaltati che, ricomponendo l’unità dei primari, si raggrumano tutti insieme in quel vortice. Ma c’è dell’altro, ancora più dirompente, rispetto a quel precario equilibrio che sostiene i codici dell’arte occidentale: in quel gorgo profondo, dove si intrecciano strane contaminazioni, nel quale il segno dureriano si allaccia a quello di Vedova e Kline, per poi ricomporsi in paniche visioni alla Bonnard, inizia a ribollire un nuovo brodo primordiale, che darà vita a una totale palingenesi artistica, in cui si coglie tutto un nuovo universo semantico. Un universo che si nutre della cultura figurativa buddista, nella costante e continua proliferazione di forme, e della tradizione iconografica giapponese, nella solida tensione che di contro la trattiene, riconducendo tutto a quell’idea rappresentata dal simbolo Wa, ideogramma che fa da ponte tra i due mondi e attraverso il quale i due segni originari, i significanti che indicano la spiga (il nutrimento spirituale di cui è costituita l’arte) e la bocca (l’anima umana a cui l’arte è destinata), si incontrano e si uniscono per dar vita a un nuovo significato di Pace. Si giunge così a riconoscere quel “faro della pace” luce del nuovo mondo, l’universo che in questo modo emerge dalle profondità dell’animo umano, nato da un simbolismo arcaico, primordiale, che a valenze apotropaiche, usate a difesa del messaggio sacro e salvifico, unisce i segni di una nuova pace. La pace, la bellezza con cui l’arte può salvare l’umanità.
Professor Gabriele Guglielmino
(docente, critico e storico dell’arte)
La sapienza figurativa silenziosa e senza sosta
L’impegno di recensire l’opera omnia di Giuseppe Siniscalchi, pur accogliendolo con cautela e rispetto, non mi è apparso all’inizio così titanico come successivamente, inoltrandomi nello studio della sua pittura, è poi effettivamente risultato. La stessa metodologia, adottata per realizzare questo contributo critico, è differente rispetto alla consuetudine che caratterizza la mia attività di scrittura. Inizialmente mi sembravano semplicemente dei bei dipinti, compiuti da una persona sensibile e attenta alla cura dei particolari. Sinceramente, non pensavo che per acquisire l’energia necessaria a tale compito, dovessi prima dedicarmi a una fase di studio filologico da una parte e di preparazione spirituale dall’altra. Questo è Giuseppe Siniscalchi e, considerando il mio approccio oramai antico alla storia dell’arte – gli inizi dell’università sono oramai molto lontani – ho dovuto riprendere ogni cosa dal principio, come se cercassi di comprendere dei dipinti per la prima volta, recuperando una dimensione fanciullesca smarrita in un tempo remoto e in un’età senz’altro più felice. Posso assicurare che ne è valsa la pena perché, nel momento in cui ritenevo di prestare un servizio culturale, ricevevo un beneficio spirituale, delicato e armonioso che mi ha fornito una nuova chiave di lettura del mondo ed della vita umana. Ho atteso molto alla realizzazione di questo compito, contravvenendo alle mie buone norme di rispetto dei tempi stabiliti, ma è stato inevitabile un tale rimando al fine di entrare in sintonia non soltanto con l’opera di Giuseppe Siniscalchi ma con il pensiero religioso-filosofico che la sottende. Si comprende meglio, alla luce di quanto detto, come l’impegno di recensire una produzione artistica sia tanto più impegnativa quanto è colta, raffinata e ricca di significati simbolici la personalità di chi l’ha realizzata. E’ importante che lo spettatore-fruitore sia anticipatamente informato, contrariamente a quanto si dice a proposito della spontaneità della visione, della necessità di fornirsi di alcune “dritte” per osservare i dipinti, altrimenti la conseguenza inevitabile sarà una bella rassegna visiva e nulla di più. Giuseppe Siniscalchi è un artista prestato all’avvocatura, sarei tentato di definirlo una “scoperta tardiva del talento”, nel senso che ha deciso di ufficializzare questa seconda attività soltanto negli ultimi anni, tuttavia ha avuto l’abilità di riportare le caratteristiche analitiche e peculiari della sua professione principale nella pittura ottenendo risultati artistici ed extra-artistici degni di grande considerazione. E’ proprio questa necessità di sintesi visiva e culturale che muove l’artista a non trascurare nulla dell’opera-oggetto a cui si dedica, oltrepassando con disinvolta naturalezza il bordo della tela per proseguire l’attività pittorica nella parte retrostante definita solitamente da una composizione verbo-iconica in cui il soggetto visivo è esplicitato da un messaggio verbale che stimola ancor di più il desiderio di conoscenza dell’osservatore coinvolto. Così, dalla felice intuizione di Giuseppe Siniscalchi, è nato il termine Fronteversismo per aasegnare un nome a questa modalità di procedere che consiste letteralmente nel dipingere entrambe le superfici dell’opera, il fronte e il verso per l’appunto. Un termine che, sin dai primi momenti, è sembrato così efficace da far prospettare scenari ben più ampi della produzione, per quanto apprezzabile, di un solo artista come la possibilità di dar vita a un vero e proprio movimento culturale-artistico, religioso-filosofico il cui punto di partenza è la realizzazione di questo catalogo. Ho parlato volontariamente di opera-oggetto perché la poetica del Fronteversismo coinvolge l’opera intesa come prodotto artistico integrale, inducendo il fruitore a cercare con ostinazione la continuità del soggetto o il suo completamento nella parte retrostante, quella che nessuno ha mai osservato. Qui risiede la nuova via dell’arte percorsa dal nostro artista, denominata Fronteversismo, che con raffinata fermezza ci conduce oltre i limiti tradizionalmente imposti dalla cornice – nelle sue opere abolita definitivamente – per donarci quel quid in più, in termini di bellezza e conoscenza, che non sempre si coglie al primo sguardo. Dopo settimane di altalenante riflessione sulle opere, ho compreso che il suo tentativo è, per ambizione culturale, non inferiore a quello compiuto nel pieno del Rinascimento, dall’Accademia neoplatonica di Marsilio Ficino presso la corte di Lorenzo il Magnifico a Firenze, in quanto mentre nella capitale dell’arte si tentava di conciliare due universi apparentemente distanti come il paganesimo e il cristianesimo, cercando di farli confluire nel prodotto finito dell’opera d’arte, Giuseppe Siniscalchi vuole realizzare un’altra forma di conciliazione, altrettanto culturale e spirituale, tra il pensiero occidentale e quello orientale. All’inizio ho parlato di opera omnia poiché, pur essendo stati esclusi alcuni lavori poco attinenti alle finalità che ci si è proposti, tuttavia comprende le diverse fasi dell’esistenza dell’artista, dalle sue primissime origini alla consapevolezza di desiderare ardentemente di impegnarsi nell’attività pittorica, permettendo così al fruitore di avere davanti agli occhi un excursus lungo ma nello stesso tempo eterogeneo, selezionato nella misura necessaria al fine di fornire una catalogo-guida, ossia un itinerario facilmente percorribile sia sul versante artistico, cronologico ed evolutivo sia su quello spirituale che rappresenta il valore aggiunto presente nelle opere. Giuseppe Siniscalchi ha atteso molto tempo prima di optare per la pubblicazione della sua produzione artistica ma quando ha deciso che era giunto il momento, i pezzi del puzzle sono confluiti tutti al loro posto, restituendoci una personalità artistica integrale, nel senso che ha offerto tutto se stesso in un’unica soluzione. Le fasi dell’infanzia, uella giovanile e della successiva maturità le ritroviamo nella versione unica e inedita di questo catalogo, ponendo il pubblico nella condizione di meditare sul processo di una vita che, per quanto complessa e senza nulla togliere al tragitto compiuto, rinasce oggi nuovamente nella paternità e nell’arte, due esperienze che probabilmente, in un punto di contatto, raggiungono la condizione dell’unisono. Il nucleo ristretto delle opere dell’infanzia è stato volontariamente scelto, al di là del risultato artistico che pur nella dimensione infantile acquista una rilevanza, per sancire una partenza, una sorta di fiabesco inizio che l’artista andrà a ripescare nei meandri della memoria e degli scaffali una volta diventato adulto, comprendendo solo allora, come spesso accade, l’intrinseca necessità fisiologica di recuperare e riappacificarsi con il proprio fanciullino pascoliano. Dal disegno Giochi di bambini in cui tracce di nero sparse qua e là alterano la serenità del soggetto rappresentato, sintomo di quanto la sfera interiore dei bambini sia sempre un microcosmo difficilmente sondabile per gli adulti, alla composizione, sempre infantile, di Paesaggio di fantasia, affetta già da una certa intenzionalità artistica nell’uso curato dei colori ad olio, riscopriamo Giuseppe Siniscalchi bambino, pur avendolo conosciuto, la maggior parte di noi, nell’età pienamente matura. Ci sorprendiamo quando, pur restando in questa età, ci imbattiamo nel disegno Equilibrio precario dell’accumulo, il titolo è emblematico, in cui una presunta torre di scatole, ognuna con un segreto da celare o da svelare, si innalza per raggiungere chissà quale smisurato ego, tipico dei bambini in via di definizione della propria personalità. Restiamo affascinati perché difficilmente immagineremmo, nella mente di un fanciullo, una capacità di sintesi visiva a proposito di un concetto filosofico così impegnativo. Questa fase costituisce l’incipit da cui una vocazione è cominciata. Artisti della portata internazionale come Paul Klee hanno compiuto, a livello artistico, un percorso a ritroso per riconquistare la spontaneità della creatività infantile mentre Giuseppe Siniscalchi ha fatto di più, in modo più semplice e autentico intraprendendo una ricerca dei propri lavori scolastici. Quando giungiamo a soggetti come L’alba sul lago o L’alba in montagna, l’artista è poco più che ventenne ma queste composizioni hanno oramai raggiunto la stato di opere e cominciamo a intravedere i caratteri che formeranno la sua koiné linguistica che sarà un formidabile strumento comunicativo per attestare silenziosamente una crescita spirituale. All’interno di paesaggi adagiati nella serenità più soave, un omino, probabilmente l’io dell’artista ma simbolo dell’umanità intera, appare prima decentrato e poi al centro dell’opera, quasi a sancire la lenta ma graduale appartenenza al cosmo, di cui permarrà sempre un religioso rispetto. L’elemento della natura acquisterà una collocazione sempre più stabile nelle opere di Giuseppe Siniscalchi, passando da un’iniziale rappresentazione di forze conflittuali come nella Vela tra le forze della natura in cui il rosso fuoco rende instabile e precario l’equilibrio dell’imbarcazione a vela, metafora della vita umana ad altre opere Cielo stellato e Giornata di sole nelle quali la natura, sia adottando un blue rieccheggiante Van Gogh sia delle velature di una delicatezza impressionista che rimanda a Monet, esprimono la riconciliazione dell’uomo con la parte più profonda di sé. Dopo alcune opere del segno di quelle sopracitate, giungiamo ad altre due intitolate Bici e Astratto-felicità che potrebbero avvicinarsi di più a quelle di un artista-designer che a un pittore puro. Soprattutto la seconda richiama ancora la figura dell’omino che allarga gli arti nel gesto della massima espansione di sé in una versione stilizzata che esprime il culmine di uno stato d’animo gioioso. Si succedono opere in cui il paesaggio, inteso come un mistero che richieda profonda contemplazione, seduce lo sguardo dello spettatore, quasi una magnetica attrazione che in un istante potrebbe allontanarlo definitivamente dal mondo, quello secolare, per catapultarlo in un altro, di natura completamente diversa, in cui i riferimenti materiali vengono meno e l’anima raffigurata dall’imbarcazione a vela la cui unica energia motrice è il vento, viene sospinta verso una meta costantemente indicata dal sole all’orizzonte. Più avanti riscontriamo paesaggi di natura metafisica di cui Il mare di Albertino è un esempio perfetto per la concordanza di una dimensione a-temporale con quei simboli, l’imbarcazione e il sole, avvolto da un’aureola evanescente, che da questo momento in avanti costituiranno la poetica più felice del nostro artista. Penso che in questa fase Giuseppe Siniscalchi abbia messo a punto l’essenza della sua ricerca più profonda, da lui definita sole-wa o più sinteticamente wa per intendere la rappresentazione grafica di una sfera solare laddove wa è la pronuncia di un segno grafico giapponese il cui significato rimanda alla pace e alla solidarietà. Nella produzione seguente il sole con anelli concentrici derivata da un’espansione della propria energia, sarà un simbolo ricorrente, portatore di una filosofia religiosa tendente alla fratellanza umana secondo una mirabile fusione tra pensiero occidentale e orientale. Lo stato di grazia ottenuto da una tale speculazione lo riscontriamo in modo inequivocabile nelle due varianti di un medesimo soggetto, con il sole o con la luna, denominato Donna giapponese meditatrice che esprime con una delicatezza estrema le reciproche influenze tra due entità cosmiche, la donna e il sole-luna wa. Esemplare in tal senso è Paesaggio di campagna giapponese in cui, senza alterare la solenne semplicità del dipinto, l’artista fa congiungere il significato cristiano della croce che taglia il campo, una sorta di lavoro compiuto da un aratro celeste, con l’immancabile sole-wa che appare come discreto supervisore del Tutto. Pur ammettendo l’esplicita matrice del maestro olandese, almeno presente ad uno stato di subconscio nei paesaggi rurali che ci sono proposti, tuttavia è un riferimento artistico completamente trasfigurato nella concezione wa sino ad ottenere un risultato agli antipodi, tanto siamo lontani dalla tensione drammatica degli ultimi anni di Vincent Van Gogh. Qui prevale la calma come stato assoluto, anche quando scende l’oscurità della notte come in Meditazione su campo di grano in cui il punto di intersezione della croce è ravvicinato alla luna per sancire definitivamente la trasversalità della fede. Si rasenta quasi il sublime dinnanzi all’opera Segni di pace in cui il mistero della luna-wa si dilata così tanto nell’indecifrabilità della notte da essere sul punto di confluire in essa trovando un approdo senza ritorno. Si riconquista la spontanea semplicità in Faro della pace attraverso una delicata armonia dei colori e ad un equilibrio tra la verticale del faro e l’orizzonte del mare, un’ opera che forse è la prova manifesta di come possa persistere nell’adulto l’aspirazione all’infanzia scevra di ogni paura puerile. L’opera, che appare come la sintesi di una ricerca svolta sin qui, è Croce e Wa al tramonto in cui la concavità di una vallata diventa la dolcissima culla di un sole in procinto di tramontare che, illuminando di una luce intensa ma destinata a restare ancora per poco, costituisce il fulcro aggregante di un paesaggio sotto cui trova protezione un’umile dimora domestica. Al termine di questa breve rassegna ci preme segnalare le ultime opere, relative all’anno in corso che, probabilmente più delle precedenti, rappresentano quella completa integrazione raggiunta tra il fronte e il verso toccando un lirismo intriso di una dolcissima nostalgia, quasi struggente. Pace sotto le stelle è fortemente evocativa, l’intensità della luce lunare illumina a giorno un paesaggio notturno, di campagna in cui un uomo, inalmente al centro della sua esistenza, non teme più il rapporto con il cosmo; Pace infinita esprime il senso dell’infinito, una vero e proprio naufragio di leopardiana memoria, il cui effetto è ottenuto attraverso la fusione delle ultime colline con un cielo smosso da un vorticoso movimento celeste; Pace e natura simboleggia l’equilibrio perfetto, sapientemente rimarcato dai cerchi nel campo i cui ogni uomo che osserva l’opera potrebbe idealmente collocarsi per godere di una simbiosi con la natura; Pace su campo di grano, il cui soggetto ci ricorda altri già proposti, acquista una sua indiscussa originalità grazie a uno schiarimento della tavolozza che rende l’opera provvista di una luce velata e riposante; Pace nel deserto corrisponde ad un ulteriore alleggerimento cromatico, il colore tenue e delicato del deserto ci rimanda al prodigio delle dune di sabbia che percepiamo come estensione fisica di una accresciuta pace interiore; Pace in riva la mare, per essere compresa nella sua pienezza, merita più delle altre il confronto con la versione da tergo poiché, nel digradare dei toni, l’azzurro del mare si fa più rarefatto proprio come il ricordo dell’estate nella nostra memoria; Notte di pace in Giappone, il titolo è già emblematico, sancisce il mistero nel mistero grazie all’effetto dinamico della luna, il cui movimento rotatorio è ben visibile nel cielo dopo essere stato appena compiuto, quasi si volesse vedere ad occhio nudo ciò che costantemente accade. Infine, non si vuole tralasciare Sole-wa e mango il cui titolo, disarmante quanto il soggetto stesso, ci ricorda, nel caso in cui ce ne fossimo dimenticati, che la perfezione è dei semplici ed è l’unica verità che non tradisce mai. Sono state citate le opere, forse, più di altre, funzionali a definire un percorso umano e artistico particolarmente complesso, nella piena consapevolezza che la buona volontà e il potere della parola possono non bastare quando le emozioni davanti a determinate immagini, dovrebbero rimanere inespresse per evitare il rischio di svilirle con il commento o, peggio ancora, con l’analisi. Tuttavia, non potendo sottrarci al compito della divulgazione culturale e artistica e volendo decantare la bellezza dello spirito nell’esperienza dell’opera d’arte, quale emerge dalle creazioni di Giuseppe Siniscalchi, abbiamo adempiuto a tale impegno nella sincera speranza di esserci riusciti.
Dr. Nina Ansary
(scrittrice e attivista)
ntervista di Myriam Defilippi
Siamo lieti di riportare alcuni passaggi della lunga intervista che la redattrice di Donna Moderna Myriam Defilippi ha fatto a Nina Ansary, sostenitrice del fronteversismo.L’intervista è riportata in lingua originale inglese:
NINA ANSARY BIOGRAFIANina Ansary è una studiosa, storica, esperta del Movimento delle Donne in Iran e autrice di "Gioielli di Allah, La storia indicibile delle donne in Iran".
È nata a Teheran e ha lasciato il suo paese quando aveva 12 anni all'inizio della rivoluzione islamica. Cresciuta a New York, ha ricevuto il suo B.A. in sociologia dal Barnard College e il suo M.A. in studi mediorientali dalla Columbia University. Nel 2013 ha terminato il suo Ph. D in Storia alla Columbia University.
Collabora regolarmente con l'Huffington Post e con il sito Women’s eNews.
È membro dell'American Association of University Women, dell'Organizzazione Nazionale per le Donne e del Comitato Nazionale per le Donne delle Nazioni Unite, organizzazioni dedicate alle politiche pubbliche e a sostegno dell'istruzione, delle cause caritatevoli e di genere. È anche una delle principali influencer iraniane su Twitter.
NINA ANSARY E IL MOVIMENTO FRONTEVERSISMO
"Ammiro profondamente Giuseppe Siniscalchi per la sua gentilezza, cultura ed entusiasmo. Gli sono grato perché contribuisce in modo speciale a un mondo di pace. Attraverso Fronteversismo, il suo movimento artistico, trasmette un messaggio di pace. E l'arte diventa un linguaggio colorato e universale spesso più potente delle parole stesse.
I suoi dipinti ci mostrano la relazione tra l'universo e il comportamento umano. Il segno distintivo della sua filosofia è la fede nel dialogo e nella risoluzione pacifica dei conflitti. Fronteversismo ha un enorme potenziale per la pace".
SUL LIBRO DI NINA ANSARY
Perché hai scelto di intitolare il tuo libro Gioielli di Allah?"Nella ricerca del movimento femminista in Occidente, mi sono imbattuto in una citazione di una suffragista e femminista americana, Alice Stokes Paul, che ha descritto il movimento delle donne con queste parole: 'Sono sempre caduto che il movimento delle donne è una sorta di mosaico in cui ognuno di noi mette un po' di pietra, poi si ottiene un grande mosaico alla fine'. L'immagine a mosaico mi ha ispirato. donne iraniane hanno diverse prospettive e atteggiamento, ma allo stesso tempo sono uniti nel desiderio e nello sforzo di essere liberi di seguire il proprio percorso. Ogni donna è una gemma unica e insieme rappresentano i gioielli del nostro Creatore, i gioielli di Allah".
Qual è lo scopo principale del tuo libro?
"È un omaggio a molte donne potenti in tutta la storia dell'Iran, rivelando una sorellanza globale di donne che hanno superato i confini di religione, razza e cultura. Infrange alcuni stereotipi sulle donne iraniane e mette in luce la miriade di donne coraggiose in Iran oggi che combattono una battaglia in salita volta a invertire le politiche discriminatorie di genere. Gioielli di Allah ha confini più ampi e obiettivi troppo: è dedicato a ogni individuo oppresso da ideologia discriminatoria".
Pensi che il femminismo è disponibile in diverse forme e dimensioni?
"Ogni donna ha il diritto di definire il mantra femminista secondo la propria visione. Deve definire il femminismo nel suo contesto culturale. Oggigiorno molte persone criticano le donne che indossano il velo. Personalmente non ho nulla contro di esso, se una donna altamente istruita e compiuta decide di metterlo. Tuttavia, non è accettabile nel caso in cui il velo è imposto alla donna da qualcun altro e non è la conseguenza della sua scelta".
Oggi le donne in Iran sono più numerose degli uomini nell'istruzione superiore, come è successo, considerando il fenomeno verificatosi dopo la rivoluzione del 1979 che ha imposto così tante restrizioni alle donne?
"Questa è una delle conseguenze impreviste delle misure intraprese dal regime islamico, che ironicamente ha finito per dare potere alle donne. L'Ayatollah Khomeini infatti sostenne la causa dell'educazione per tutti, donne comprese. Per quanto riguarda l'istruzione superiore, nei primi anni della rivoluzione, alle donne fu vietato di entrare in alcuni campi di studio. Tuttavia, nel corso degli anni, hanno gradualmente ottenuto l'accesso e hanno una presenza in quasi tutte le discipline. L'imposizione del velo e del mandato per l'istruzione del sesso unico a livello primario e secondario è stata accolta con favore dalla maggioranza delle famiglie tradizionali che non potevano riferirsi alla tendenza occidentalizzata messa in moto dalla monarchia Pahlavi; quei genitori si sentivano sicuri di mandare le loro figlie a scuola con un'atmosfera così casta".
Da un punto di vista umanitario, quali pensi saranno le conseguenze dell'accordo sul nucleare firmato lo scorso luglio a Vienna?
"I negoziati non stavano affrontando le violazioni dei diritti delle donne e altre preoccupazioni sui diritti umani. Tuttavia, le sanzioni hanno indebolito profondamente e per anni la popolazione iraniana. Spero che se una porta si apre, allora altre porte faranno lo stesso. Ecco perché sono cautamente ottimista sul fatto che la revoca delle sanzioni potrebbe essere l'inizio di cose migliori a venire, compresi i diritti delle donne e più libertà per gli iraniani in generale".
Come possiamo in Occidente aiutare le donne iraniane?
"La comunità internazionale dovrebbe impegnarsi a portare l'attenzione sulla situazione delle donne in Iran che continuano ad essere debilitate dalla premessa irrazionale delle leggi patriarcali. Abbiamo tutti la responsabilità collettiva di amplificare la voce di chiunque o di qualsiasi gruppo che è stato ingiustamente oppresso. E i social media con la loro natura senza confini possono aiutarci anche in questo sforzo".
100% di tutti i proventi dalla vendita del suo libro Gioielli di Allah vanno a varie organizzazioni di beneficenza e istituzioni. Il principale beneficiario è la Fondazione OMID, un ente di beneficenza che da oltre un decennio dà potere alle giovani donne svantaggiate in Iran.
Elena Aurelia Schmit
(dottoressa in medicina e chirurgia appassionata di arte e filosofia)
Fronteversismo : sin dal primo momento in cui ho sentito questa parola, ha riecheggiato nella mia mente il pensiero del filosofo presocratico Eraclito: l’armonia degli opposti, concetto che racchiude le due facce universali della medaglia. Così come nello spirito eracliteo, anche nella riflessione fronteversista ritroviamo l’armoniosa unione tra la luce e l’oscurità, fuse nell’abbraccio tra il dolce calare della sera ed il bagliore delle prime luci dell’alba, preludio di un nuovo giorno.
Il messaggio filosofico trasmesso per mezzo dell’arte racchiude un principio estremamente semplice quanto attuale, ovvero la pacifica congiunzione delle diversità: la pace.
Tale sentimento viene evocato dal chiarore della luna e dallo splendore del sole prepotentemente raffigurati nei dipinti di Giuseppe Siniscalchi, messaggero illuminato dei nostri tempi, veicolando attraverso il suo linguaggio artistico il faro della pace e dell’armonia.
Paula Tooths
(Giornalista, produttrice e autrice)
Brasiliana, è nata in San Paolo, Brasile e vive a Londra dove ha fondato la TOOTHS Communication, che offre servizi di giornalismo, produzione esecutiva. E’ anche autrice di libri (quattro pubblicazioni nel Regno Unito), giornalista presso Na Pauta online e ha lavorato come motivatore. In Twitter (@paulatooths) ha circa 2 milioni di followers. Lavora per gruppo editoriale e per agenzie giornalistiche come ad esempio “A Hora”. Come siti di riferimento del gruppo indichiamo: jornalahora.com; ahoraonline.com.br; napautaonline.com.br.
Per maggiori informazioni rinviamo a Wikipedia e a IMDB
Roberto Zadik l’ha intervistata a proposito del Fronteversismo:
Quali sono i suoi dipinti favoriti del Maestro Siniscalchi e può spiegare qualche impressione o emozione in proposito?
Amo Gius come artista. La sua arte, nel complesso, è geniale. E’ intensa e piena di anima. Uno dei suoi lavori che posso evidenziare è Fronteversismo in Kimono perché mi ci vedo molto in questo. Non ho uno stile favorito, ma generalmente, le immagini con anima catturano i miei occhi.
Uno dei suoi dipinti favoriti di Siniscalchi è “Volo di Pace”, qual’è la sua opinione circa religione e spiritualità?E’ un capolavoro. Rustico, naturale, onesto. E’ come un’anima che grida per la pace. E’ pieno di sensazione…è difficile descrivere l’arte realmente, almeno per me …l’arte è qualcosa da sentire se ha senso…
Ho visto il suo profilo Twitter e sono rimasto sorpreso dal numero di contatti, più di due milioni di followers, qual’è il segreto del suo successo?Non c’è alcun segreto per questo, ma duro lavoro per anni.
Ho letto che lei è brasiliana che vive in Londra. Le manca il suo Paese? Cosa pensa di Londra? Ho scritto un libro di racconti sulle città e storie di fantasia, Soulcity 2.1- L’anima delle città, e io sono un grande fan dei Beatles, Queen e Brit Pop come Bossa Nova, Vinicio De Moraes e Kaleidoscopio. Ha qualche musicista favorito inglese o brasiliano?
Come lei probabilmente avrà letto, sono nata in Brasile, ma poichè sono figlia di una famiglia italiana, non chiamerei il Brasile “il mio paese” perché è molto difficile riguardo a questo in quanto sono cresciuta come una vera italiana. Amo Londra e questo è il motivo principale per cui vivo qui da circa due decenni. Io non sono una grande fan dei Beatles ma amo i Queen e il Pop britannico… ma la musica popolare brasiliana non è la mia tazza da tè…. Amo il Rock’n’ Roll… Pink Floyd, Nirvana, REM, Smashing Pumpkins, MeatLoaf… ed è difficile sceglierne solo uno. Amo anche Bon Jovi, U2, Cher, Vasco Rossi, Renato Zero…. Sono cresciuta ascoltando anche questi…le scelte italiane sono probabilmente influenzate dalla mia famiglia e le ascoltavo spesso quando vivevo in Italia, così come Fabrizio De Andrè o Jovanotti.
Maria Longo
(Dottoressa e ballerina)
Giuseppe Siniscalchi e Mario Tantin
L’opera di Tantin raffigura un uomo con il capo chino sulle mani giunte e appoggiate ad un bastone in uno sfondo indefinito dai colori caldi, i colori della terra. Sembrerebbe l’ora del tramonto. L’uomo è stanco e lo si percepisce immediatamente dalla posizione che assume il suo corpo: è affaticato, stanco, esausto e rassegnato all’idea di dover andare avanti, superare quello che ogni giorno si trova ad affrontare nel trambusto della quotidianità. Riesco ad immaginare il suo volto, le rughe e gli occhi chiusi in questo momento di raccoglimento con se stesso.
La macchia d’olio che hai inconsapevolmente generato nel ripulire la tela rappresenta chiaramente il profilo del protagonista del quadro. Questo profilo però non assume lo stesso atteggiamento dell’uomo in carne ed ossa; il profilo è alto, lo sguardo è rivolto in avanti verso il domani, verso il futuro, ed è fiero, forte, pronto ad affrontare ogni avversità. È questo quello che non può immaginare l’uomo del dipinto…non si accorge che é la sua anima forte e fiera a dargli energia e grinta per affrontare la vita; non si accorge di quanto sia forte e di quante cose è riuscito a superare e quante ancora ne supererà grazie alla forza e all’energia infinita dell’animo di cui è dotato. Quell’animo è bambino, è l’animo puro, vero, grintoso e pieno di quell’uomo. Il soggetto di questo quadro rappresenta ognuno di noi che, pervasi dalla stanchezza che ogni giorno la vita ci porta a provare, costringendoci a ritmi stressanti e alla abnegazione del nostro io emotivo, non ci accorgiamo di quanto siamo forti, di quanto valiamo, e di quanto la forza dell’anima che ci guida ogni giorno sia ossigeno e carburante dei nostri sforzi e dei sogni per cui combattiamo. Sguardo alto e occhi svegli e luminosi…non bisognerebbe dimenticarli mai.
Col tuo gesto su quel quadro hai dato un senso nuovo e straordinariamente positivo a quell’opera in perfetta linea con la filosofia della corrente artistica da te creata.
Giuseppe Siniscalchi, Il “Peppi” (1964)